Monumento ai Caduti di Milano
Nel 1926, Giuseppe de Capitani d’Arzago, presidente del comitato cittadino per il monumento ai caduti di Milano, falliti già due concorsi, pensa di erigere al suo posto una chiesa o un sacello dove le madri, i padri, le vedove, potessero venire a pregare al chiuso, in silenzio, nel loro dolore. Trovarono una sintonia di intenti cinque giovani architetti milanesi Giovanni Muzio, Gio Ponti, Alberto Alpago Novello, Tomaso Buzzi e Ottavio Cabiati, ai quali venne dato l’incarico, per assegnazione diretta. In soli dodici mesi, fu così realizzato, all’interno di un muro perimetrale con un accesso principale, dotato di colonnati, e con due ingressi laterali architravati, un ‘grande lanternone’ ottagonale di marmo di Musso. Ad Andreotti in sostanza, era stato richiesto di realizzare unicamente due gruppi di figure simboliche da anteporre al piccolo tempio. Gio Ponti esprime la sua contentezza nell’apprendere dell’incarico all’amico scultore: “io particolarmente non ho fatto che sperare e pregare che tu fossi con noi e ne sono felice”. Inizialmente il Monumento a lui commissionato era diviso in due grandi gruppi: ‘Intervento’ e ‘Vittoria’. Il primo, messo poi in disparte per motivi mai bene appurati, doveva rappresentare una Vittoria alata tra due soldati armati e in posizione di combattimento; il secondo, un eroe (ma vivo) a cavallo, accompagnato trionfalmente da una Vittoria alata. Le variazioni di studio sui rispettivi temi furono molte e assai interessanti; gran parte di queste, e forse proprio tutte, sono ancora oggi integre nei modelli in gesso qui raccolti. In essi - alcuni dei quali ricordano il tocco del più giovane Arturo Martini - si gusta compiutamente l’atmosfera creativa, da laboratorio, si conosce l’esigenza più intima del suo modellato semplice ed essenziale, che pure è così vivo, quasi partecipe alla mano dell’artista nel prendere corpo. Quando accusavano di eccessiva nudità il suo cavaliere a cavallo e la Vittoria alata, egli dette sfogo alla sua rabbia ironizzando e scrivendo, contro quanti professavano tanta assurda pudicizia, degna del più gretto moralismo. Ma riflettendo sull’inconcepibile situazione che si andava creando decise di accondiscendere, seppure a malincuore, a possibili nuovi cambiamenti, alla ricerca di una soluzione pacifica per quietare gli scontenti. Il Monumento ai Caduti di Milano rappresentò, come ha scritto Ferdinando Previti (1981) “il più lungo nonché travagliatissimo episodio che accompagno gli ultimi anni di Andreotti. Difficile dire con esattezza quanti e quali furono gli ostacoli che si opposero alla realizzazione: da tempo si sussurrava intorno a lui, definendolo come un elemento poco attaccato al regime, un antifascista; continuando chissà, forse avrebbero detto di trovarsi di fronte un sovversivo. Inoltre c’era da fare i conti con le fastidiose campagne denigratorie sorte e rinforzatesi dopo il Monumento alla Madre italiana in Santa Croce a Firenze, a sostegno ed esaltazione di altri artisti, tra i quali Romano Romanelli, Baccio Maria Bacci e Guido Balsamo Stella; le commissioni esaminatrici poi erano per lui vere e proprie spine nel fianco; a volte sembrava che esse si sforzassero di creare nuovi problemi e difficoltà a mo’ di puro capriccio, anche se le motivazioni erano di ben altra natura. A ogni modo questo “grande imbroglio” del monumento continuò a trascinarsi fino al ‘29, lasciando indelebili segni nell’animo di Andreotti. Ne fanno fede lettere dall’epistolario con Aldo Carpi, con Ugo Ojetti e con Margherita Sarfatti: lettere piene di amarezza ma nitide per vigilante coscienza morale e per integra fede nel proprio operare. Era accaduto che in una riunione la commissione ‘imbiancava’ Vittoria, cavallo e cavaliere e con questo stravolgeva tutta la fatica di Andreotti, il suo appassionato lavoro di diciotto mesi, sorprendendolo e affliggendolo profondamente. Ma forse aveva già da tempo previsto quanto era ormai accaduto, dal momento che due anni prima, il 25 novembre del 1927, confessava all’amico Carpi a proposito dei suoi impegni sempre più pressanti nei monumenti: “Non riuscirò forse più a liberarmi dei grandi lavori...e mi pare che tutto me stesso sarebbe entrato benissimo in qualche piccola cosa. Ho torto di dolermene. Ma forse sono un po’ stanco e troppo mi pesa dover lavorare fuori di casa”. E sempre al suo amico Carpi scrive in data 23 marzo 1929 “attendevo una conferma scritta di ciò che è venuto ieri in forma di chiaro licenziamento. Ne sono amareggiato, ma sono tranquillo. Non ti racconto tutti i particolari di questa vicenda che tu conosci. Subisco una grande ingiustizia che ha l’aria di un tradimento. Non so dire altro, per ora. La cosa che ancor più mi amareggia è il contegno di questi signori, inesplicabile, subdolo, profondamente falso... riprenderò finalmente il lavoro nella mia Pietà nella prossima settimana di Passione”. Anche se con amarezza, Andreotti riprendeva dunque il suo più naturale cammino di artista libero da vincoli e tornava alla rielaborazione della Pietà (la Pietà Stavropulos) che doveva essere la sua ‘cordiale vendetta’ sull’altra di Santa Croce ormai al suo posto.
Piano: Terra
Sala: Ingresso
Anno: 1929
Autore: Libero Andreotti